Lavorare al tempo del coronavirus
25/05/2020
Gestire le assenze dei dipendenti durante le varie fasi dell’emergenza epidemiologia da Covid-9 si è rivelato essere molto complesso. Peraltro, non si può escludere che per far fronte a nuove “ondate” di contagi le Autorità siano costrette ad adottare nuovamente misure restrittive.
La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro ha cercato di rispondere ad alcuni dei quesiti più gettonati, come ad esempio:
- Il lavoratore in quarantena deve comunque essere retribuito?- Il dipendente può assentarsi dal lavoro per timore di contagio?- Come comportarsi se vengono vietati gli spostamenti?
Sì. Se il dipendente è obbligato ad assentarsi dal lavoro a causa di un’ordinanza della pubblica autorità, che vieta di uscire di casa, appare chiaro che l’assenza dal lavoro non dipenda dalla volontà del lavoratore stesso interessato da tale provvedimento. L’assenza è necessaria e dettata dal provvedimento d’ordine pubblico, finalizzato alla tutela della salute delle persone.
Pertanto, in questa situazione si realizza la sopravvenuta impossibilità a recarsi al lavoro per cause indipendenti dalla volontà del lavoratore: il dipendente, in tali ipotesi, ha il diritto di restare a casa, ricevendo comunque la retribuzione.
In alternativa all'assenza retribuita, datore di lavoro e lavoratore possono optare per lo smart working?
Lo smart working, detto anche lavoro agile, è una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che è stata introdotta di recente nel nostro ordinamento. Tramite smart working l’attività lavorativa può essere svolta all’esterno dell’azienda, anche senza una postazione fissa.
Lo smart working non è una categoria contrattuale a sé stante, ma è semplicemente una modalità di svolgimento dell’attività lavorativa che deve essere definita in un apposito accordo sottoscritto da datore di lavoro e dipendente.
Normalmente, per attivare questa modalità di svolgimento dell’attività lavorativa sono richiesti un accordo individuale, siglato fra azienda e lavoratore, e una comunicazione obbligatoria depositata dal datore di lavoro sul portale istituzionale del Ministero del Lavoro.
In ragione della particolare situazione di emergenza, con decreto D.P.C.M. 23.2.2020, relativo alle misure da adottare per contenere il contagio nei comuni delle regioni interessate il governo ha consentito l’attivazione dello smart working senza necessità di un accordo preventivo tra le parti.
Tuttavia, non sempre è possibile svolgere l’attività con questa modalità. La possibilità di attivare lo smart working dipende, infatti, dalla tipologia della prestazione lavorativa.
Il D.l. n. 34 del 19 maggio 2020 (il cosiddetto decreto “Rilancio”) ha successivamente previsto che i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che abbiano almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito o che non vi sia genitore non lavoratore, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali.
Sì. In questi casi è evidente l’assoluta indipendenza della impossibilità della prestazione lavorativa dalla volontà del lavoratore, essendo vietato all'azienda lo svolgimento dell’attività dal provvedimento dell’autorità pubblica.
Per contrastare la diffusione del virus, può essere infatti vietato dalle autorità l’accesso in un determinato comune o area geografica, oppure può essere disposta la sospensione delle attività lavorative per le imprese o la sospensione dello svolgimento delle attività lavorative per i lavoratori residenti nel comune o nell’area interessata, anche se le attività si svolgono fuori dal comune o dall’area indicata.
Di conseguenza, il lavoratore ha quindi diritto alla retribuzione pur in assenza dello svolgimento della prestazione.
Si, tuttavia la sua assenza dovrà essere disciplinata secondo le previsioni, di legge e contrattuali inerenti l’assenza per malattia, con le conseguenti tutele per la salute e la garanzia del posto di lavoro.
Dipende.
Se il lavoratore sceglie volontariamente di isolarsi, pur non avendo sintomi palesi di contagio, oppure per adempiere ad un provvedimento delle autorità.
Bisogna infatti distinguere l’ipotesi in cui l’isolamento avviene per il mero timore di essere contagiati dall'ipotesi in cui ci si isola per ragioni più serie, nelle more di un provvedimento dell’autorità sanitaria competente.
Nel primo caso, il dipendente perde il diritto alla retribuzione, e si realizza l’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro, situazione da cui possono scaturire provvedimenti disciplinari che possono portare anche al licenziamento.
Nel secondo caso invece Il lavoratore decide di isolarsi perché, ad esempio, proviene da una zona a rischio, o per contatti con soggetti positivi. In questi casi, nell'attesa dell’emanazione della misura da parte dell’autorità pubblica, il comportamento del dipendente, di oggettiva prudenza, risponde alle prescrizioni della normativa d’urgenza. L’assenza va dunque assimilata alle astensioni dalla prestazione lavorativa obbligate dal provvedimento amministrativo, quindi retribuite.
L'assenza retribuita si realizza anche nell'ipotesi in cui, per ragioni di oggettiva prudenza, sia il datore di lavoro a “lasciare a casa” i dipendenti. Non bisogna infatti dimenticare che il codice civile stabilisce come il datore di lavoro abbia il dovere di adottare tutti gli accorgimenti necessari per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. Il datore di lavoro non può, comunque, salvo accordo col lavoratore, imputare l’assenza alle ferie, in quanto la ragione alla base dell’assenza è differente, ed in quanto lederebbe il diritto del dipendente.
Un altro delicato tema per il datore di lavoro riguarda l’equilibrio tra tutela della riservatezza e tutela della salute.
A tal proposito, il garante privacy ha emanato un comunicato stampa in data 2 marzo 2020 (clicca qui per leggerlo) con l’intento di vietare iniziative “fai da te” nella raccolta delle informazioni sullo stato di salute dei lavoratori.
Le indicazioni fornite sono state successivamente integrate - ed in parte superate - da quanto disposto dal Protocollo siglato in data 14 marzo 2020 tra il Governo e le parti sociali con lo scopo di agevolare le imprese nell'adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio (clicca qui per scaricare il .pdf).
Vediamo quali sono le principali regole cui il datore di lavoro deve attenersi.
Il trattamento dei dati particolari (come quelli riguardanti la salute) senza il consenso dell’interessato rimane in via generale vietato.
Il recente Protocollo ha ammesso solamente la facoltà per il datore di lavoro di subordinare l’accesso all’azienda al controllo della temperatura corporea: nel caso in cui vengano superati i 37,5° è inibito l’ingresso ai locali.
Trattandosi, in ogni caso, di trattamento di dati personali, è necessario osservare alcune disposizioni, in linea con la disciplina privacy in vigore:
- il dato relativo alla temperatura va rilevato ma non registrato (a meno che ciò non sia necessario per documentare le ragioni del mancato accesso in azienda);
- è necessario fornire all'interessato la relativa informativa, anche oralmente. La stessa, che può omettere le informazioni di cui il soggetto interessato sia già in possesso, può contenere le indicazioni alla prevenzione dal contagio da COVID-19, il riferimento al DPCM 11 marzo 2020 e all'implementazione dei protocolli di sicurezza anti-contagio. Dal punto di vista temporale, si può fare riferimento alla durata del periodo di stato d’emergenza;
- va definita l’organizzazione deputata al trattamento dei dati, attraverso l’individuazione dei soggetti preposti e la loro istruzione corretta;
- dev'essere garantito che i dati siano trattati esclusivamente per le finalità relative alla prevenzione dal contagio da COVID-19 (e non diffusi o comunicati a terzi se non nel rispetto delle previsioni di legge – ad esempio qualora l’autorità sanitaria lo richieda per ricostruire la filiera dei c.d. “contatti stretti” del contagiato).
Il datore di lavoro può richiedere una dichiarazione con cui il lavoratore attesti di non avere avuto, nei 14 giorni precedenti, contatti con persone positive al COVID-19 o che non provenga dalle zone a rischio?
Sì, lo può fare nel momento in cui informa che altrimenti l’accesso ai locali sarebbe precluso.
Trattandosi, in ogni caso, di trattamento di dati personali, è necessario osservare le medesime disposizioni, di cui al primo paragrafo. Nello specifico, non vanno chieste informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva, né indicazioni precise sul luogo visitato.
Il lavoratore è sempre tenuto a comunicare al datore di lavoro eventuali situazioni di pericolo per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro (nello specifico, la presenza di eventuali sintomi influenzali e la provenienza da zone a rischio o il contatto con persone positive nei 14 giorni precedenti).
Il lavoratore deve informare l’azienda dell’eventuale presenza dei sintomi tipici (febbre e tosse) e deve, quindi, rimanere al proprio domicilio sulla base delle disposizioni fornite dalle autorità sanitarie.
Nel caso in cui i sintomi compaiano durante l’espletamento dell’attività lavorativa, deve immediatamente informare il datore di lavoro, il quale provvede temporaneamente a isolare il lavoratore e dotarlo di mascherina, con l’espresso invito a comunicare il proprio stato nel più breve tempo possibile al medico curante. Nel fare ciò, il datore di lavoro deve garantire riservatezza e dignità al lavoratore.
È bene ricordare che, nel raccogliere tali informazioni fornite dal lavoratore, il datore di lavoro sta trattando dati personali ed è, quindi, è necessario che osservai le medesime disposizioni, di cui al primo paragrafo.
In tale caso, l’azienda, previo avvertimento dell’autorità sanitaria, collabora con la stessa per ricostruire i cosiddetti “contatti stretti” (ai fini della quarantena che deve essere applicata), ben potendo chiedere al lavoratore di lasciare cautelativamente i locali.